DIALOGHI CON LA GEOMETRIA di Alfonso Di Muro

“Dio sempre geometrizza.”
Platone



La famosa espressione del filosofo ateniese Platone viene genericamente interpretata come la volontà di tenere in grande considerazione la geometria quale unico strumento in grado di rendere il mondo leggibile e razionalizzabile. Una scienza e uno strumento che, prima nel mondo delle Idee, pensa alle possibili forme del mondo e poi, nella febbrile attività del demiurgo -una sorta di artigiano divino- traduce le idee in forma, avendo la geometria come modello e la materia come strumento.
Da qui sembra aver avuto origine la visione del mondo generata nell’ambito della civiltà greco-romana che, analogamente alle altre civiltà contemporanee, ha espresso una propria concezione dello spazio attraverso teorie geometriche applicate, di volta in volta dalle raffigurazioni pittoriche, scultoree e architettoniche. Si pensi alla sezione aurea, una proporzione geometrica basata sul rapporto fra una parte maggiore che sta alla minore come l’intera sta alla maggiore, da cui sono scaturite la grazia, l’armonia, le proporzioni, la simmetria riscontrabili nelle varie forme d’arte, nonché nella natura stessa tanto da poter essere considerata una specie di archetipo.
Il trionfo della geometria nelle arti visive si ebbe soprattutto nel Rinascimento, quando le proporzioni e la simmetria divennero gli strumenti universali per penetrare la bellezza del mondo e dell’ uomo; proprio l’uomo divenne “misura di tutte le cose”, finendo sospeso in un quadrato e in un cerchio nel celebre disegno L’Uomo Vitruviano di Leonardo, in cui trovarono applicazione le idee sulla geometria del matematico Luca Pacioli espresse nel “De Divina proportione”. In precedenza tutta la cultura figurativa dei greci si era basata sulla sistematica ripetizione di rapporti proporzionali tra l’altezza, la larghezza e il volume delle singole parti in relazione al tutto di un edificio, di una statua o di un dipinto, al fine di creare quell ’ effetto di armonia che i greci chiamavano Eurytmia.
Le tre dimensioni euclidee furono però sconvolte, nel corso dell’ Ottocento e del Novecento, grazie alla considerazione del tempo come quarta dimensione della rappresentazione, sempre meno rappresentativa, del mondo. Una quarta dimensione, lo spazio-tempo, che nella sua raffigurazione richiese il passaggio dalla statica alla dinamica, problema di non facilissima soluzione considerata la bidimensionalità della tela.
Lo scardinamento della geometria tridimensionale di stampo euclideo stimolò lo sviluppo della geometria iperbolica prima e della geometria astratta successivamente. Così come nelle arti figurative gli impressionisti inizialmente cominciarono a rappresentare non più ciò che l’occhio dovrebbe vedere in teoria, ma ciò che l’occhio percepisce realmente nella pratica. Si abbandonò progressivamente l’imitazione concreta della realtà e della natura orientandosi verso una rappresentazione più o meno geometrica di quel mondo delle idee che abbiamo richiamato in origine al nostro contributo, consentendo che le forme geometriche pure prendessero il posto degli oggetti rappresentativi. Vale la pena di ricordare le nobili esperienze dei padri fondatori di questa rinnovata sensibilità figurativa: Kandinsky e il Bauhaus, Mondrian e l’esperienza di De Stijl, infine Kasimir Malevich e l’esperienza del Suprematismo.
Tutti questi elementi che corrispondo a più di duemila anni di storia del pensiero e delle arti visive trovano spazio nella ricerca degli artisti presenti nell’ottava Mostra di Arte contemporanea di Stella Cilento, riattualizzati mediante linguaggi autonomi, personali e con esiti tra loro distanti nella forma, sebbene prossimi nell’energia esecutiva dei vari lavori. Dalle opere qui esposte non traspare più l’ambizione di esporre delle visioni del mondo, aspirando a pretese di un’arte universale e oggettiva: quell’ardimento degli artisti rinascimentali che pensavano la natura secondo le regole auree delle proporzioni numeriche, che in molti casi ha sfiorato l’eroismo, è scomparso. Semmai qui è esposta una moltitudine di linguaggi che, proprio perché basati sulle forze delle singole soggettività, chiede semplicemente di farsi avanti nell’ostinato cammino del quotidiano. E nulla più. Forse perché si è verificato quello che è accaduto analogamente in musica con il jazz, per cui le composizioni sono sempre più diventate irripetibili e indistinguibili, tanto da poter essere mostrate ma forse in nessun caso descritte.


Le opere di Enea Mancino sono caratterizzate dal frequentissimo ricorso alle forme geometriche euclidee che sembrano colloquiare fra loro su piani cartesiani, dove il contrasto fra forma e colore assume un ruolo primario all’interno della comunicazione visiva. Un rigoroso senso della geometria e dello spazio -dunque della ragione - dettaglia la realtà pittorica rendendo la tela territorio di conquista verso imprevisti e inimmaginabili campi del reale.
Contemporaneamente emerge un grande esercizio di conoscenza della grammatica visiva in cui il tratto, la linea, la superficie, il ritmo, la cadenza, il colore diventano gli elementi essenziali di una sintassi figurativa tradizionale e innovativa al tempo stesso.
Difatti, sull’arduo territorio della grammatica, Mancino ha innestato coraggiosamente l’apporto del mezzo digitale, sostituendo la manualità tradizionale del gesto pittorico e ideativo con il prolungamento servomeccanico del mouse, innesto che ci regala congegni espressivi di grande gusto e forza, in cui le larghe campiture cromatiche si accordano con forme geometriche imprevedibili. Così, nei lavori più recenti di Mancino, caratterizzati dal ricorso alla computer art o digital art, si avvertono gli echi del costruttivismo russo e del razionalismo della Bauhaus
Ciò che sottostà alle ricerche di Renato Milo è quasi un rigore scientifico, l’utilizzo di forme ed elementi semplici o complessi, una profonda conoscenza delle regole geometriche e della teoria della percezione visiva.
Partito in anni giovanili da istanze optical, passato nella metà degli anni Novanta al confezionamento di recipienti in plexiglas contenenti acqua, le così dette scatole d’acqua o idrosculture, Milo è passato a una geometria delle forme libere, poligonali, quasi ludica dopo il passaggio al movimento internazionale Madì, acronimo dei termini Materialismo Dialettico; movimento nato a Buenos Aires nel 1946.
Tale passaggio ha determinato una rottura con la tradizionale concezione del quadro chiuso dalle ortogonali delle cornici, contrapponendovi opere realizzate su superfici poligonali, a volte stratificate, cui viene conferito slancio e tridimensionalità da una gamma quasi prismatica di colori. Anche il materiale prescelto per i suoi lavori, il plexiglas appunto, viene utilizzato non solo per la sua capacità di essere innovativo, ma anche per le sue qualità formali ed estetiche.
Il lavoro del pittoscultore Ernesto Terlizzi si contrappone sin dal primo impatto a quel concetto di rappresentazione che è proprio dell’arte tradizionalmente intesa, in favore del direttamente vissuto, di ciò che è incarnato. di ciò che possiede un’anima, ma soprattutto un corpo.
Gli ultimi venti anni della sua produzione hanno visto irrompere sui suoi lavori i più disparati materiali: dalla iuta alle combustioni catramose, dalle garze ai materiali gessosi, dai ciottoli di fiume o di mare ai più svariati pezzi di legno. Come a dire: la materia, soprattutto! Quasi la volontà di introdursi nel contesto naturale, astraendosi però da esso. Una volontà di mimetizzarsi con l’ambiente per innalzare però la soglia percettiva delle proprie emozioni e della propria sensibilità. Col risultato finale di comunicare la solarità della vita attraverso i non rari inserimenti di squarci di colore purissimo, quali il rosso e il blu in particolare.
L’approdo finale è quello di riscoprire la natura che è dentro di noi, attraverso la materia che è fuori di noi: riscoprire il proprio corpo, la propria memoria, i propri gesti.
Già come scultore Antonio Buonfiglio ha sorpreso critica e pubblico con la mostra Light Metal, tenuta a Todi, nella quale l’artista ha messo in scena il matrimonio tra pittura e scultura, coniugando forme organiche e forme geometriche attraverso la materia dell’ alluminio fuso, variamente patinate di luce.
Nelle Textures qui esposte spiccano i colori primari che sembrano emergere dal dialogo fra luce e materia, depositandosi sul diaframma di base, la tela.
La sedimentazione sul supporto avviene talvolta in forma grumosa, talvolta in modo filiforme o a piccoli tasselli, quasi memore delle citazioni musive dalla pittura di un Klee o una certa produzione di Klimt.
Viene in mente proprio Klee, quando ci accorgiamo che la pittura di Buonfiglio riesce a dare voce a ciò che sta nascosto.
Difatti, nel 1920, l’artista svizzero, nel saggio La confessione creativa, così si esprimeva: “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non lo è”.
Giornalista e critico d’arte emiliano, Sebastiano Simonini, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Boastra, si cimenta nel mondo del profondo personale e di ognuno di noi, approdando a forme di rara bellezza e lirismo quasi assoluti. L’esito delle sue elaborazioni è una fitta trama visiva squisitamente informale, ma dal valore certamente espressivo e intimo, in grado di coinvolgere lo spettatore -anche quello più sprovveduto- e di appassionarlo nel godimento delle forme che ricordano le vibrazioni e l’essenzialità di un Mark Rothko.
I due protagonisti assoluti delle opere di Simonini sono il colore e il tempo. Il primo, materico, denso, grumoso, ha un no so che di coagulato, predisposto quasi a strati o a blocchi sovrapposti, come le possenti muraglie delle architetture micenee; il secondo elemento costitutivo, il tempo, sembra scaturire dall’essenzialità stessa delle forme pittoriche, mostrandosi come una successione di attimi o frammenti, un susseguirsi da un secondo all’altro, così da formare la fitta rete del nostro presente che scaturisce da un già dato e un non ancora.

Alfonso Di Muro